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Ultimo Aggiornamento: 23/08/2020 16:53
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Milan Kundera - Lo scherzo
Milan Kundera ci racconta la Cecoslovacchia del dopoguerra, pervasa dai movimenti ideologici e universitari che accompagnarono l’affermarsi del comunismo. È una società caratterizzata dalle antiche tradizioni popolari, dalla musica morava, ma segnata anche dalla pomposità cerimoniale voluta dal regime, in plateale contrasto con la povertà dei paesaggi e della popolazione. Una società in cui l’ideologia collettiva si fa sempre più forte, affermandosi come una fede in cui ci si può solo identificare in toto o divenirne nemici.
Si afferma una morale collettiva, di partito, che nega l’esistenza di una morale individuale che possa non coincidere perfettamente con la prima. L’individuo ne viene schiacciato, distrutto: deve incasellarsi nel sistema collettivo, adattarvisi corpo e anima, con gioia rivoluzionaria, o ne è espulso come corpo estraneo, additato come pericoloso, perverso, nemico.
L’individualismo, l’intellettualismo, tutto ciò che ruota intorno identità e alla singola persona è negato come immorale, disdicevole. Anche solo un sentimento di nostalgia o di tristezza è visto con sospetto in quanto inadatto all’ottimismo rivoluzionario di partito.
La distruzione di una morale e dei sentimenti individuali, porta all’orrore dell’annientamento dell’individuo. Egli non ha un proprio essere, una propria esistenza, una propria verità che è vera e oggettiva a prescindere da tutto, ma esiste in funzione del partito. La verità è ciò che il partito stabilisce che sia.
Che tu sia una persona onorevole, valorosa, rispettabile, dipende da quanto tu sia in grado di conformarti alla morale collettiva. Nel momento in cui ti poni fuori della sua grazia, divieni un perverso, un abietto, un nemico del popolo, un individuo. E diventarlo è un attimo.
Basta un evento sfortunato, una circostanza occasionale, una parola di troppo. Anche solo il modo di sorridere può esser preso a pretesto e divenire motivo di rovina.
Perfino uno scherzo.
Una volta definiti individualisti, intellettuali, imperialisti, nemici, essi semplicemente lo sono. Lo diventano. Caduti in disgrazia presso il partito, non esiste nessuna verità oggettiva cui aggrapparsi. Non conta chi tu sia realmente o cosa provi: la verità è solo quella ufficiale, essa si sovrappone alla realtà oggettiva e la sostituisce. Da quel momento, la verità oggettiva diviene l’ombra sbiadita ed impalpabile della verità ufficiale. Chi si ostina nel tentativo di dimostrare il contrario, rimarrà schiacciato dalla propria ottusa perseveranza. Dalla propria cecità. Il contrario non esiste.

E così, accade che come in una commedia pirandelliana, tutti gli attori indossino, con maggiore o minore fortuna e consapevolezza, delle maschere, recitando il ruolo dei fedeli e gioiosi servitori del comunismo.
Alcuni, i più ottusi, riescono alla perfezione e senza grosse difficoltà ad identificarsi con i principi ed i dogmi collettivi, nei diktat, vivendo il dissidio soltanto di fronte alle contraddizioni ed alle bruttezze più palesi (sarà giusto che mi ordinano di lasciare il mio uomo?), dimostrandosi ottimi servi di partito.
Altri si servono della propria ipocrisia, della loro doppiezza, che gli consente di recitare al meglio il ruolo al punto da divenire trascinatori, leader, i più amati del partito. Essi sono destinati ai ruoli più elevati, ma sono anche quelli che sapranno saltar giù per primi per adattarsi meglio e senza pathos ai cambiamenti.
Altri, ancora, inseguono e vivono all’ombra di quegli ideali, nei quali si autoconvincono di identificarsi, interrogandosi però di continuo e vivendo un dissidio interiore tra ciò che sono e ciò che aspirano ad essere, rischiando così di finire perennemente in crisi. Essi sono, nel loro vivere in maniera così critica e sofferta, e quindi in ogni caso viscerale, quegli ideali e quel tempo, anche quelli che – paradossalmente – vi resteranno legati maggiormente, e meno saranno in grado di scrollarseli di dosso al cambiare dei tempi.
Soprattutto tra questi ultimi, accade che alcuni, non soccorsi dalla stupidità né dalla fortuna, cadano in disgrazia presso il partito, e per chi incorre in questa sventura non vi è alcuna speranza.
“Lo scherzo” di Kundera è dunque la storia di un’ingiustizia.
La storia di uno scherzo non compreso, uno scherzo sciocco, ingenuo, innocente (o forse frutto di una ribellione interiore più profonda?) che diviene il pretesto per la caduta in rovina del protagonista.
Dichiarato nemico ed espulso dal partito, Ludvìk inizierà una veloce parabola discendente, una caduta in disgrazia segnata dal dolore, dal senso di ingiustizia, e poi da un sarcasmo amaro, ed infine un rancore via via crescente verso quegli attori ipocriti e quegli ideali che ne avevano segnato la condanna.
Fin a quel momento teso nello sforzo, non sempre scontato, di identificarsi con i valori di partito, Ludvìk si sente dapprima incompreso, gettato tra reietti e nemici, in una realtà che non sente appartenergli e da cui conta di riscattarsi, dimostrando la propria estraneità. La verità dei fatti, la verità di se stesso.
Sino a scoprire, ben presto e con dolore, che non ne esiste una. In un crescendo di frustrazione, e poi rancore, capisce che non vi è alcuna verità da dimostrare. Ciò che lui sente di sé, altro non è che un’ombra, un’eco della verità ufficiale. Capisce che è calato non tra i nemici del partito, ma tra altri disgraziati, non peggiori ma in fondo neppure migliori di coloro che li avevano condannati. Non diversi, solo più miseri. Caduti in disgrazia per le casualità più disparate, altro non erano che individui, a loro volta pronti ad indossare una maschera e fare branco, divenire partito contro il singolo di turno.
Il rancore per la sua vita distrutta travolge il protagonista, impedendogli di rapportarsi alla realtà che lo circonda e di capire gli altri, dai quali si sente solo tradito, di capire Lucie, che perde senza averla mai nemmeno lontanamente compresa, perché incompresa, triste e tradita è la sua stessa esistenza.
Il tutto, fino allo “scherzo” finale, uno scherzo stavolta non ingenuo e non innocente. Una vendetta. Oscena, volgare, meschina, frutto di nient’altro che dell’odio covato negli anni. Una vendetta patetica.
Una vendetta inutile perché il tempo cancella tutto: tradizioni, guerre, successi e ingiustizie perpetrate o subite, col loro perdono o vendetta…a nulla il tempo pone riparo, tutto è cancellato nell’oblio. È il passato stesso che svanisce, dimenticato, superato, rendendo inutile e patetica anche una vendetta.
E tragicomica, grottesca, triste è la felicità di Helena, che balla sbattendo a destra e sinistra i suoi seni flaccidi, gioiosa, rinata nel suo nuovo amore, inconsapevole dei reali sentimenti e dei piani del suo amante. Helena che ne abusa con la sua gioia ed il suo corpo, rendendo non solo patetica, ma addirittura ridicola la vendetta di Ludvìk, vittima del suo stesso scherzo come di tutta la sua vita, distrutta e indissolubilmente legata ad un passato nel quale ormai neppure i suoi stessi carnefici si identificano più





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